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Coni, Marcello D'Orta: "Gli scugnizzi di Napoli come i "Ragazzi della Via Pal"



Gli scugnizzi di Napoli oggi un pò come 'I ragazzi della via Pal'. Fecero una guerra per conquistare un terreno dove poter giocare e ci scappò pure un morto. Era un ragazzo di nome Nemecseck, quello che Marcello D'Orta, lo scrittore di 'Io speriamo che me la cavo', sospetta fosse un suo antenato in una similitudine tra romanzo e realtà. E D'Orta, scugnizzo di ieri, oggi 52enne, ha trasferito tutte le difficoltà di fare sport per un bambino a Napoli, allora come oggi. Il suo racconto breve dal titolo 'Sport: e' una parola...', ha vinto il primo premio del concorso nazionale per il racconto sportivo indetto dal Coni e consegnato oggi a Roma. Una storia che comincia in un budello del ventre di Napoli, vico Limoncello, dove nacque D'Orta e dove lo sport preferito dai ragazzi della zona era quello di cavalcare i carruocci, tavole di legno con ruote di gomma: essendo l'ingresso della strada strettissimo, spesso l'immondizia occludeva del tutto l'entrata e la corsa dei ragazzi finiva tra rifiuti e 'zoccole' (grossi topi di fogna). Difficoltà che viveva lo scrittore nella cui casa (la famiglia era composta da nove persone) si mangiavano 'reliquie di pranzo' e che oggi vede proiettate in tanti nuovi scugnizzi. "Generalmente quando scrivo - spiega lo scrittore - faccio sempre dell'autobiografia per fare in modo che il lettore medio si immedesimi nel protagonista. Quello che ho scritto sono cose che viviamo tutti quanti. Marcello D'Orta che non riusciva a praticare lo sport, il calcio in particolare, riassume tutti i ragazzini di strada che hanno difficoltà a praticare lo sport. Si dice che fare attività sportiva allontana dalla criminalità e dalla droga. E' vero ma io dico che bisogna mettere tutti in condizioni di farlo". D'Orta sottolinea che in tutte le scuole dove ha insegnato non c'erano palestre e ancora oggi "non ci sono spazi verdi così come nelle città. C'é una lotta tra poveri tra i ragazzi che cercano di giocare nei giardinetti e gli anziani che hanno diritto a giocare a bocce e carte". Lui, da ragazzo, cominciò a giocare in casa. "Lo facevamo - racconta - con una palla di stracci ma che vuoi giocare in una casa? Si scendeva e le strade erano piene di auto e moto. Nei campetti abbandonati di periferie c'era e c'é solamente squallore e degrado e anche il rischio di incontrare personaggi malintenzionati". D'Orta, in proposito, ricorda nel racconto il tema scritto da un alunno che gli raccontava di essere rimasto da solo a giocare perché in un campo era scomparso un bambino ed avevano tutti paura ad andarci. Lui continuava a recarsi in quel posto ma si metteva un martello in tasca. A Napoli l'unico polmone verde, sottolinea D'Orta, era e resta il bosco di Capodimonte "dove non è mai stato concesso di giocare a calcio. Noi ci andavamo ma non era permesso farlo. Dove deve praticare un pò di sport un ragazzo. Io non ho voluto fare un racconto polemico ma dare una testimonianza significativa della realtà che non è cambiata ma è addirittura peggiorata". Oggi "il cemento ha invaso tutto, dove è questa città a dimensione di bambino? Perché non si può fare a Napoli quello che si fa a Londra, a Parigi e in tante città del Centro Nord: ogni scuola elementare ha una palestra e un giardino mentre da noi si trovano in vecchi edifici borbonici o antichi conventi". Eppure, dall'evasione scolastica "che si giustifica non solo per la necessità di portare qualche soldo in caso col lavoro nero ma anche perché queste scuole sono 'sgarrupate'. Se vogliamo contrastare la delinquenza e la droga bisogna partire dalla scuola, dai campi di calcio, dagli spazi verdi, a partire dai quartieri più poveri".(ansa).

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